Degustazione verticale di vecchie annate

Nelle scorse settimane su Ginger abbiamo presentato alcune degustazioni di Brunello di Montalcino, targate 1999, 2002, 2003 e ci siamo soffermati su alcune questioni piuttosto delicate nel rapporto tra annata di un vino, andamento stagionale e risultati in bottiglia. Tutti aspetti che vengono continuamente fuori quando vengono organizzate serate “verticali” (cioè serate in cui si assaggia lo stesso vino di più annate diverse), utili a capire l’evoluzione di un vino negli anni invece di limitarsi a leggerlo sulle riviste, o sentire predizioni sulla bontò in questo o quell’anno futuro.
Approfitto quindi dei filmati girati in occasione della Verticale Col d’Orcia Brunello Riserva per approfondire alcuni aspetti degustativi che spesso si dimenticano quando ci accingiamo a queste “prove”.

Nel video sopra espongo alcune considerazioni dal punto di vista del sommelier. In quello che segue, Nicola Giannetti di Col d’Orcia ci spiega come avviene la scelta delle annate della collezione “Annate Storiche“.

Il terroir e il Pinot Nero di Podere Fortuna nel Mugello (FI)

Questo vigneto impeccabilmente tenuto come un giardino fa parte della Tenuta Podere Fortuna in quel di Barberino nel Mugello, valle a nord di Firenze, zona famosissima in ogni tempo per dare vini sciatti banali e molto acidi. Quindi è stata una grandissima sorpresa, sia per la guida dei vini dell’Espresso che ha addirittura premiato con 17,5/20, sia per noi sommelier abituati a Pinot Neri toscani pesanti e terrosi, assaggiare questo Pinot Nero così elegante e “francese”. E infatti assaggiandolo è un vino fresco, floreale, fruttato, che “suona” decisamente molto francese e borgognone.

E da sempre la Borgogna è difatti il modello tuttora insuperato per questo vitigno. Un pò come il Sangiovese a Montalcino, così il Pinot Nero in Borgogna dà alcune sfumature di profumi e di gusto che in nessun’altra regione del mondo riesce a dare nonostante ci siano ottimi risultati in particolare in Oregon (USA), Nuova Zelanda e Alto Adige. Addirittura in Alto Adige viene organizzato un prestigioso concorso nazionale per il Pinot Nero dove sono stato recentemente chiamato come wine blogger in commissione di valutazione.

Due chiarimenti su “Velenitaly”: i nomi delle aziende e il punto di vista dei sommelier

espresso

Velenitaly: Visto che l’informazione giornalistica “tradizionale” sembra non passarsela benissimo e che il numero di copie vendute sembra essere diventato l’unica motivazione per pubblicare riviste, credo che stia proprio ai blog, come fa notare Fiorenzo di Diario Enotecario, ad aiutare i consumatori a capire le vicende troppo semplicisticamente descritte dall’ormai famoso articolo dell’Espresso della scorsa settimana (giovedì). Lascio a Marco Mancini i risvolti sanitari della faccenda, mentre volevo qui chiarire alcuni punti. Innanzitutto sono di ieri i nomi delle aziende coinvolte, tutte fornitrici di vino per GDO e non per ristoranti enoteche e simili, quindi tutto vino venduto in brik o in plastica o anche in vetro ma comunque sotto i 2 euro al litro.

Poi, distinguiamo la faccenda del Brunello cosiddetto “taroccato” sollevata da Franco Ziliani sul suo blog e discussa ampiamente sui forum del settore dal vino al metanolo. Il problema nel Brunello (e in altre denominazioni come Chianti Classico e Passito di Pantelleria, stando a quanto dice l’Espresso) è di natura enologica ovvero sembra che siano state utilizzate uve e vitigni non permessi dal disciplinare di produzione in alcuni vini a Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) e vini DOC. In particolare si presume l’utilizzo di Cabernet, Merlot e Syrah per ammorbidire il Brunello e renderlo più facilmente vendibile in Italia e all’estero e altre uve non provenienti dal Chianti per il Chianti Classico e uve non provenienti da Pantelleria per il Passito omonimo.
Quindi una truffa a livello di nome e rispetto per i disciplinari ma si tratta comunque di prodotti sani, controllati e puliti e per di più buoni (anche troppo…).

Come si annusa un vino. I segreti dei Sommelier

Molto spesso avrete visto in TV le esibizioni di Albanese e le sue dissacranti prese in giro del mestiere di noi sommelier. Ovviamente piacciono anche a noi perchè ci permettono di capire quali sono gli aspetti del nostro lavoro che maggiormente colpiscono e affascinano il pubblico e quali invece sono le parti che ci espongono al ridicolo. Di sicuro l’annusare un vino e cominciare a descrire gli aromi più disparati è pratica comune e quella che rimane più impressa anche perchè appare purtroppo spesso molto distante da quanto effettivamente ci pare di annusare nel nostro bicchiere!

In realtà i sommelier partono sicuramente avvantaggiati in quanto una serie ripetuta di assaggi di una tipologia di vino permettono di ricordare alcuni aromi tipici di un certo vitigno o di una certa zona e vengono a volte nominati per abitudine più che per effettiva presenza in quel momento nel bicchiere. Per esempio, la viola nel Chianti Classico, il peperone verde nel Cabernet e la cosiddetta “pipì di gatto” nel Sauvignon Bianco sono alcuni sentori che un sommelier in genere enuncia a prescindere dal fatto che siano davvero così evidenti nel bicchiere che sta degustando.
Altro aspetto che differenzia i Sommelier dalle persone “normali” (nel senso di sane di mente…) è l’allenamento che fanno ogni giorno per associare ad ogni traccia di molecola odorosa nel vino un corrispondente nome. Questa è un’attività in realtà più complessa di quello che sembri in quanto nel nostro cervello, come cerco di spiegare in questo breve podcast, la memoria olfattiva che ci permette di capire che un certo profumo è quello ad esempio di “fragola” (sistema limbico) è archiviata in una zona molto diversa dal lobo che racchiude le funzioni legate al linguaggio.

Chianti Classico: qual’è il vostro (stile) preferito?

Si fa presto a dire Chianti Classico! Il caro vecchio vino dal Gallo Nero (termine tra l’altro che non può essere utilizzato per il vino toscano visto che è di proprietà delle Gallo Wineries Californiane) si è evoluto tantissimo negli ultimi anni ed è passato dal fiasco tradizionale da un prodotto fresco e immediato ad un vino capace di “guardare dritto negli occhi i Francesi” come ama dire Marco Pallanti, presidente del Consorzio Chianti Classico e proprietatario del famosissimo Castello di Ama a Gaiole in Chianti (SI).

Ma per apprezzare il Chianti Classico oggi, il Chianti più antico e tradizionale e pregiato tra le 8 denominazioni Chianti DOCG, quello proveniente da una ristretta zona di comuni tra Firenze e Siena, è necessario sapere che ne esistono almeno 3 tipologie dallo stile molto differente. Questo potrebbe apparire un controsenso se si pensa al fatto che una DOCG (denominazione di origine controllata e garantita) dovrebbe “garantire” un vino dal sapore riconoscibile e definito!

Vin Santo Toscano: come si produce?

vin santo burde

Tra le tante prelibatezze enologiche della Toscana una delle più sfruttate è senza dubbio quella del Vin Santo, vino tradizionale da fine pasto, divenuto famosissimo in tutta Italia e nel mondo con lo sventurato abbinamento cantuccini di Prato e Vin Santo. Dico sventurato perchè nella maggior parte dei casi, per star dietro alla moda, si servivano biscotti secchissimi e molto lontani dalla qualità di quelli originali dal sacchetto blu di “Mattonella” del forno Mattei a Prato e soprattutto si usava mescere vin santo liquoroso, reso cioè dolce dall’aggiunta di alcol e non dovuto al processo di appassimento delle uve in cantina.

Per ottenere un vino dolce ci sono infatti molti modi: quello utilizzato dal vinsanto Toscano tradizionale prevede la raccolta delle uve bianche (o anche rosse per la tipologia di Vin Santo Occhio di Pernice) e metterle ad appassire per 2-3 mesi in locali appositi detti appassitoio su stoie di canniccio oppure appeso su dei tralicci di ferro. Con il tempo e la ventilazione naturale, i grappoli perdono acqua e concentrano le sostanze zuccherine, acide e polifenoliche nell’acino. Quando vado a schiacciare (delicatamente!) queste uve dopo alcuni mesi ottengo un mosto dalla concentrazione zuccherina più alta del normale che viene fatto fermentare direttamente nei caratelli (piccole botti da invecchiamento tipiche toscane intorno ai 300 litri di capienza) grazie all’azione della “madre” del vinsanto ovvero una colonia di lieviti batteri e altri microorganismi che si tramandano di generazione in generazione (esattamente come la madre dell’aceto nelle acetaie Emiliane). Solo questi microorganismi sono infatti in grado di fermentare e di vivere in condizioni di solito mortali per lieviti comuni utilizzati per il vino standard.

Dalla Sardegna: Triglie alla vernaccia

Le triglie di scoglio si riconoscono facilmente poichè hanno un bel colore rosso vivo, talvolta 3 o 4 linee orizzontali gialle lungo i fianchi e, unico segno sicuro, delle strisce rosso-brune sulla prima pinna dorsale, quella cioè più vicina alla testa. Le triglie di fango o di rena, invece, sono inferiori quanto a qualità, ma si possono utilizzare per fare dei sughi per la pasta e per insaporire le zuppe; inoltre, sono la varietà da utilizzare se vogliamo friggerle, comprese quelle assai piccole che si pescano da metà agosto alla prima decade di settembre.

La triglia non ha fiele ed ha un ottimo fegato, per cui è consigliabile non sventrarla (non per niente i nostri “cugini” francesi chiamano la triglia “beccaccia di mare”): semmai è consigliabile eliminare le branchie qualora fossero sporche di fango. Il periodo della pesca delle triglie è tutto l’anno, ma il migliore, qualitativamente, è sicuramente quello che copre per intiero i mesi di settembre ed ottobre.

La ricetta delle triglie alla Vernaccia che presento non è di per sè propria della Sardegna, ma lo diventa nella misura in cui andremo ad aggiungere alla ricetta base il pangrattato e la scorza di limone grattata, secondo un uso tipicamente cagliaritano, ma esteso a tutta l’isola.

Dal Molise: zuppa di ortiche

La nostra cucina tradizionale sa esprimersi al meglio soprattutto quando si tratta di utilizzare i prodotti alimentari più semplici: a volte, poi, ne valorizza alcuni che sono ormai praticamente ignoti al grande pubblico. Ma non a Ginger&Tomato, ovviamente!

In molte aree del centro-sud, ad esempio, si preparano deliziose minestre a base d’ortica e non si tratta, come verrebbe da pensare, di ricette povere. In realtà si tratta di piatti che partecipano alla ritualità combinata dei filtri d’amore e delle pozioni atte ad incrementare la fertilità.

Il fatto, inoltre, che le minestre a base d’ortica risultino anche delicatissime, prelibate, ovviamente non guasta affatto: ve ne vorrei proporre una che reputo tra le migliori, che è anche di facilissima preparazione, originaria del Molise. Per provare altre squisite preparazioni a base d’ortiche, date un’occhiata anche qui, a questa ricetta postata qualche tempo fa: io stessa l’ho provata, ed è deliziosa!

Dall’Egitto: Ta’ Amia, polpette di fave

Continuiamo la nostra esplorazione attraverso la cucina afro-mediterranea presentando stavolta la ricetta di un paese dalla storia antichissima, l’Egitto, ed una delizia dei campi e degli orti: le fave.

Anche le fave avevano un posto d’onore sulle tavole dei nostri progenitori. Venivano consumate fresche- anche a crudo, come testimonia ad esempio l’usanza latina e poi laziale di consumare deliziosi spuntini a base di pecorino stagionato il cui sapore piccante viene temperato dal dolce dei legumi– oppure secche, sia come ingrediente principe di saporite zuppe, sia come comprimari, con altri vegetali, di piatti veramente eccezionali.

Fra queste, v’è una antichissima ricetta egiziana in cui le fave- secche, ricche in proteine ed a basso costo- si trasformano in saporite, profumate polpette che non hanno nulla da invidiare a quelle a base di carne. E’, ancora una volta, un piatto le cui origini si perdono nel tempo, ma che non manca mai sulle tavole dell’Egitto di oggi: è la Ta’ amia, polpette di fave secche al comino e papavero.