Destinazione Tibet, un viaggio nella cucina tibetana

Dieci giorni tra Xian, Lhasa e le montagne del Tibet, hanno visto protagonisti 5 ragazzi italiani che hanno partecipato a Destinazione Tibet, un viaggio premio messo in palio dall’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia. Dieci giorni in cui i fortunati vincitori oltre a scoprire la cultura del luogo hanno avuto modo di assaporare la cucina tibetana, unica nel suo genere.

Venti freddi, alte montagne e picchi innevati alternati da placide e verdi valli, hanno fortemente caratterizzato la gastronomia del posto. In questo reportage riportiamo le esperienze e sapori che hanno avuto modo di sperimentare, raccolti dalle loro stesse voci. Le pietanze assaggiate durante il viaggio sono state sicuramente molto diverse dai loro gusti, ma superata una prima diffidenza, Roberta, Nello, Elena e Alessia – questi i nomi dei ragazzi prestati a questa avventura – si sono immersi un mondo fatto di odori, sapori e profumi inebrianti unici nel suo genere che gli hanno riscaldato il cuore quanto l’anima.

Alcuni dei prodotti utilizzati in Tibet sono sconosciuti all’interno dei confini della stessa Cina. Se dovesse riassumere la tradizione culinaria del “Tetto del Mondo”, potremmo dire che inventiva e contaminazione sono tra le caratteristiche principali.

La guida ha subito spiegato loro che  – complici le alte latitudini – questi luoghi non hanno mai visto la nascita di una ricca e variegata produzione agricola, per questo la cucina tibetana è fortemente influenzata dai paesi vicini come India, Pakistan, Nepal. A Lhasa e Gyantse, per esempio, il gruppo ha pranzato in ristoranti indiani. In altri luoghi invece è stata la cucina del centro-sud della Cina come il Sichuan e lo Yunnan a venirgli incontro. Ma la cucina tibetana sperimentata non è stata certo meno saporita e meno varia dei piatti che delle aree sopracitate.

Come mai? Una prima risposta va ricercata nelle difficoltà oggettive di intraprendere da sempre attività legate al settore primario, che di fatto hanno impedito la nascita di una vera “industria agricola” tibetana. In secondo luogo a causa del fervente credo buddhista dell’amato popolo di questi altipiani, in molti villaggi si è costretti ad adattarsi a dei regimi vegetariani. Tuttavia, nonostante queste perplessità, la cucina dello Xizang è in grado di offrire alcune eccellenze culinarie uniche nel suo genere. Tra gli alimenti principali troviamo lo tsampa, un composto a base di farina d’orzo, utilizzato sia per produrre pasta che come additivo ad alcune bevande. Gustoso e scaldante è anche il latte di yak – gustato prima con qualche riserva e poi con grande entusiasmo – da Alessia

 

in un albergo di Gyantse. Dallo stesso latte viene ricavato anche un ottimo yogurt servito durante i pasti, oppure un nutriente formaggio il cui gusto deciso racchiude tutta l’essenza del Tibet. Come non citare i caratteristici banchetti di carne essiccata? Tra le vie principali di questa affascinante Regione, è infatti possibile assaporare questo particolare snack affumicato a base di carne di pollo o di agnello. Poco conosciuta al di fuori dei confini Tibetani, è la thenthuk, una pasta servita sotto forma di noodles o “tagliatelle”, si trova cucinata con verdure o carne, cosi’ come i momo, golosi ravioli ripieni cotti al vapore (derivati quest’ultimi dalla tradizione cinese dei “baozi” al vapore o dai “jiaozi” alla piastra, già apprezzati dal gruppo in un ristorante di Xi’an).

Come detto, la carne occupa uno spazio importante tra la popolazione dello Xizang. Questa la si trova secca o bollita, spesso speziata e piccante, e se al turista viene offerto della coda o lingua di yak è considerato un grande onore, poiché sono le parti più morbide e saporite dell’animale. Tuttavia un discorso più approfondito merita l’utilizzo di questo alimento. Nell’Altopiano tibetano convivono tre fedi religiose, con diverse prescrizioni alimentari, motivo per il quale la carne è solitamente esclusa dai pasti ufficiali per motivi religiosi. Gli indù adorano mucche e tori come divinità e considerano sacri tutti i loro prodotti, perciò seguono un rigoroso regime vegetariano, che essi considerano segno di purezza, mentre i buddhisti si astengono dalla carne, benché non vi sia espresso divieto, perché professano il rispetto di ogni forma di vita ne giustificano l’uccisione solo per necessità, come la sussistenza. Alcuni buddisti non mangiano prodotti di origine animale, incluse uova e latte. Con grande sorpresa i nostri amici italiani hanno appreso che in Tibet si mangia anche pesce, ma solo se non viene pescato, ma rinvenuto sulle rive dei laghi o dei fiumi. Altri tibetani evitano le cosiddette “cinque spezie”, aglio , cipolla, erba cipollina, scalogno e porri, perché temono che il loro forte aroma possa eccitare i sensi e ostacolare la liberazione o il controllo dei desideri. Infine il divieto islamico di mangiare carni impure (maiali e derivati), animali morti naturalmente e animali acquatici che vivono anche fuori dall’acqua (granchi e anfibi), consente di cibarsi solo di carni pure, ottenute con la macellazione di rito mussulmano. Non quindi un caso che i pochi macellai tibetani sono per lo più musulmani e che tra le carni più cucinate anche nei ristoranti troviamo montone, il pollo e lo yak, quest’ultimo solo per celebrare particolari eventi.

I nostri cinque viaggiatori hanno parlato spesso dei loro incontri con nei monasteri con i celebri “monaci dai cappelli gialli”, ovvero il clero lamaista che da secoli guida le anime del popolo tibetano. In una occasione sono riusciti a visitare anche le cucine della mensa di un monastero. Ma cosa mangiano i monaci buddhisti? Quest’ultimi sono conosciuti per vivere incredibilmente a lungo e il cibo, unito anche ad una vita frugale e meditativa, è una delle ragioni principali. L’alimentazione del clero ruota attorno ai concetti di equilibrio e di armonia con la natura. Ecco perché si interessano anche delle varie fasi di preparazione degli alimenti, a partire dalla coltivazione. Ciò aumenta la consapevolezza del cibo come strumento per il sostentamento ed il benessere; percezione che invece si perde con l’abitudine di trovare gli alimenti pronti sugli scaffali del supermercato.

Dalle parole di Elena “per noi un pane è un pane, mentre per loro il pane deve essere fatto rispettando il flusso energetico della vita” ovvero attraverso una lievitazione naturale lenta usando ingredienti ricchi e maturati al sole e non immagazzinati per anni e raffinati fino a perdere tutte le proprietà, come accade da noi. A tavola i monaci mangiano lentamente, dando importanza ad ogni momento del pasto, compresa la masticazione. Per loro la masticazione è davvero importante e secondo alcuni medici risolverebbe il 50% dei problemi di salute. La dieta che hanno sviluppato nel corso del tempo li porta a consumare cibi integrali, in una alimentazione con poche proteine animali e in ogni caso, essi raccomandano di evitare la carne di maiale. I grassi come il burro e olio fanno parte della loro dieta, ma mai in grandi quantità. Evitano i cibi troppo freddi e troppo piccanti perché causano stati infiammatori nel corpo e consumano molti cibi e bevande fermentate a base di riso, soia, tè, latte.

L’apprendere e sperimentare sul campo la cucina tibetana ha permesso a Roberta, Nello, Elena e Alessia di completare la conoscenza di una terra straordinaria che non è fatta solo di alte montagne e colorati monasteri, ma anche di convivialità e pietanze curiose e fondamentali per conoscere il vero carattere di un popolo. Conclude Nello con una delle sue battute: “La carne di yak è veramente buona, ma la pizza di Napoli l’apprezzerebbero anche i monaci, ne sono sicuro”.

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